liberamente ispirato a questo artwork di DAGGER DESIGN

Giants in Cagliari

Quando arrivarono non ero pronto.
Nessuno di noi lo era.
Cominciò tutto con un debole richiamo che serpeggiava nella notte, un mormorio sommesso portato a riva dall’alta marea. Il suo eco si diffuse tra i vicoli deserti di Marina e risalì sino a Castello; era una nenia capace di aggrapparsi alla pelle con un brivido glaciale, per poi entrare nelle ossa e nella testa come i sussurri di un diavolo nascosto.
Per tre giorni si insinuò nella città, subdolo tormento nato dagli incubi.
Fin da subito Cagliari fu orfana dei gatti: ogni felino nel raggio di molti chilometri parve scomparire come per magia da un momento all’altro. I cani, povere bestie rese folli da qualcosa che l’umanità non era in grado di intuire, ringhiavano nel buio, uggiolavano, si ritraevano con la coda in mezzo alle zampe al passaggio degli uomini. Con sguardi vitrei fissavano all’improvviso ombre ignote e invisibili, lanciando latrati carichi di angoscia che squarciavano il terribile silenzio notturno in un allarme inascoltato.
I primi fra noi a impazzire furono gli artisti, anime sensibili colpite con più forza dall’onda del terrore dilagante. Ogni pittore consumò le sue matite sopra fogli e fogli di segni distorti, tremanti. Qualcuno impresse un volto primordiale col carbone e con il sangue sulle bianche mura del Bastione; un monito imperante, i cui occhi vuoti sembravano catturare ogni brandello di luce rimasta. Poeti e scrittori presero a cantare rime crudeli rivolte alla luna, parole senza senso in una lingua sconosciuta. Rumori sordi e rochi gorgoglii accompagnavano talvolta le loro strazianti grida di dolore.
In quei giorni, molti disperati si gettarono dalle balaustre della città alta, in fuga da qualcosa che li spaventava assai più della morte stessa.
Invidio la loro saggezza e il loro coraggio.
Al calar del sole, la terza notte dall’inizio della tragedia, dal mare si alzò una nebbia fitta che coprì dapprima il porto e presto invase ogni anfratto della città. Un rombo profondo scosse allora la terra, ma sapevamo tutti che non si trattava di un sisma. Era molto peggio.
La luce di Calamosca si infranse su un buio immondo e disegnò sagome scure contro l’orizzonte. Nella foschia si accesero occhi grandi come case, mentre stormi di gabbiani impazziti si affrettavano per raggiungere la terraferma gridando di terrore.
Erano ombre colossali, nate prima che l’uomo fosse nei piani di un dio maligno e ingrato. Antichi visitatori venuti da lontano, o forse i veri padroni dello stesso suolo che, con ingiustificata arroganza, rivendichiamo come nostro.
Il più grande tra quei titani aprì lentamente le fauci, file di diamanti storti dietro cui si celava l’abisso della dissennatezza, e in molti restammo immobili a guardare. Incapaci di fuggire, atterriti al punto da non sapere che fare, né dove andare. In fondo al cuore eravamo consci di una cosa: non era rimasto alcun luogo in cui avremmo potuto trovare riparo, men che meno salvezza.
Erano arrivati i giganti.