artwork by Paynt

Il lungo viaggio


Continuò a camminare.
Decise che non si sarebbe fermato finché non avesse trovato un luogo più freddo, più freddo di quello che aveva dentro, per poterlo sentire sulla pelle, per sentirsi vivo.
Prese ciò che era rimasto del suo cuore, lo mise al sicuro, lo conservò. Il suo corpo era decadente; rifiutò gli occhi, non gli servivano, era lontano dall'apparenza e dall'apparire. Non rispettava nessun canone di estetismo, non c'era nulla di bello in lui che si potesse vedere con gli occhi! Non c’era spazio per lui, in quel mondo. Continuò a camminare ripetendosi che un giorno sarebbe tornato.
Un giorno…

La sua era una marcia senza fine, un eterno vagare in direzione del gelo.
Si trascinava passo dopo passo verso una meta lontana, incerta. Sapeva solo di dover cercare un luogo freddo in cui sentirsi finalmente a casa.
Con sé aveva un piccolo scrigno di frassino grezzo, sigillato da una serratura in ottone resa opaca dal tempo. Non possedeva altro che quello: né indumenti, né una bussola per orientarsi.

Tutti quelli che incontrava fuggivano via spaventati. Percepiva la loro paura, mentre urlavano in cerca di aiuto. Non poteva biasimarli: era conscio di essere un abominio, un bieco cadavere in decomposizione mosso dalla sola forza di volontà. Qualcuno avrebbe potuto definirlo testardo, incapace di accettare la sua stessa morte. Ciononostante, lui continuava inesorabile a condurre quel penoso viaggio solitario.

L’uomo che fu aveva deciso di rinunciare alla vista. Si era rivolto in preghiera alle forze che governano il mondo e aveva implorato di non vedere mai più. Aborriva le apparenze e avrebbe preferito essere cieco, di fronte alla crudeltà di una vita ingiusta.
La sua richiesta venne accolta, ma a una condizione: che egli ne portasse le stigmate per sempre. Un nuovo occhio si schiuse al centro della sua fronte grinzosa, mentre gli altri due diventarono sclere bianche e vuote. Fu condannato a una vita di ombre e colori sbiaditi.
Gli dèi, talvolta, sono sadici bastardi.

Deluso da se stesso e dalla crudeltà del destino, avanzava mesto in mezzo alla neve. Nonostante il freddo che minacciava i suoi passi, sentiva di essere ancora lontano dal luogo glaciale che avrebbe riflesso il gelo del suo petto vuoto e menomato. Ogni volta che le dita scorrevano sulla cicatrice, però, la missione gli pareva più nitida.
Portava un fardello pesante che scandiva il suo incedere con lenti rintocchi ovattati da sottili pareti di legno.

Incontrò una farfalla. Emanava una timida luce giallastra che nel grigiore del suo sguardo la faceva sembrare una stella. Con ogni battito d’ali lei dipingeva nell’aria lasciandosi dietro una scia colorata, così l’uomo decise di seguirla, rapito.
Era bellissima e leggera, ma lo metteva a disagio quel suo modo irrequieto di volare, con repentini cambi di direzione che disegnavano in cielo tracce frenetiche.
Non riusciva mai a intuire per tempo dove lei volesse andare, né perché.
Si lasciava soltanto guidare dalla sua luce.

La farfalla lo condusse in una palude.
Quando sotto i piedi non ebbe altro che fango spruzzato di neve, l’uomo esitò.
Lei allora si posò su un fiore vicino, come a volerlo aspettare. La sua luce divenne accecante, calda e familiare. Lui ebbe voglia di allungare una mano per sfiorare quella creatura dorata, sentire sotto le dita le sottili ali delicate.
Per quanto gli paresse di poterci arrivare, non riuscì ad afferrarla.

A lei risultava assai facile percorrere quei sentieri irti di pericoli. Minuscola com’era, si infilava abilmente tra i rami che lui doveva invece schivare o piegare. Scherzava nei rovereti e sugli speroni di roccia ghiacciata. Si librava in alto per poi ricadere in baratri senza fondo. Lo spaventò l’idea che il tragitto fosse troppo arduo per uno della sua stazza e fu assalito dal dubbio.

Averla così vicina lo faceva sentire meno freddo. Il feretro tra le sue mani si era alleggerito ed egli ricordò una sensazione lasciata marcire negli anfratti corrosi della sua anima. Un fremito ormai estraneo gli attraversò le guance e divenne una contrattura agli angoli delle labbra. Durò poco, meno di un istante, ma lo convinse ad andare avanti.
Con un frullio d’ali la farfalla spiccò il volo ancora una volta.

L’inseguimento proseguì a lungo, forse troppo a lungo, e le tenebre si tesero sull’uomo come dita di una gigantesca mano artigliata. Era ormai immerso nella palude. Trascinava le gambe in pozze di torbida melma vischiosa, affondando sempre più. Nel frattempo la farfalla continuava a posarsi, di tanto in tanto, curiosa e spensierata. Il giallo brillante che irradiava era sbiadito, tornato alla lucentezza opaca degli inizi.

L’uomo allora aprì lo scrigno che conteneva il suo cuore avvizzito. Il battito dell’organo mutilato risuonava dolorante e lento; troppo lento per andare al tempo della gioia con cui lei cantava il suo colore. Comprese che la farfalla sarebbe stata sempre irraggiungibile e che non avrebbe più potuto seguirla. Ne avrebbe consumato la luce, eroso il naturale splendore, mentre lui sarebbe affondato nel fango come una barca spezzata in un mare di sogni.
La guardò volar via un’ultima volta e non si mosse.

Giunse in una vallata solitaria circondata da alte montagne. Qua e là si aprivano pozze che non poteva vedere, ma di cui percepiva l’umida presenza spettrale. La vegetazione era bassa, morente e ricoperta di nevischio. All’ombra dalle vette lontane comparve una forma sanguigna che si muoveva con agilità famelica.
Lanciò un ululato di richiamo e l’uomo accettò l’invito.

Il lupo avanzava con passo sicuro, accarezzando la neve con l’innata leggerezza di un danzatore. Sceglieva il percorso più semplice su cui tracciare un cammino per due, non soltanto per sé. Gli trottava spesso accanto e strofinava il suo muso alla ricerca di un contatto intimo e privato; nella mente stanca dell’uomo cominciò a farsi strada una flebile sensazione di fiducia.

La tundra fu sostituita da una palizzata di alberi alti e scheletrici su cui la luce del sole proiettava ombre lunghe come lame. L’uomo era esausto. Si fermò per riposare, ma il lupo se ne accorse e tornò indietro. Lo annusò, gli leccò una mano, poi gli morse il polso macilento e strattonò, con forza, verso il cuore della foresta.
Provò dolore e una curiosa sensazione di appartenenza, accompagnata però dal gusto amaro dell’inquietudine.

Il lupo sapeva essere una creatura gioviale. Nelle lunghe giornate di cammino stuzzicava l’uomo con latrati festosi, agguati e giochi di ogni genere. Se lui però provava a toccarne il pelo, il suo ringhio sommesso strideva come acciaio sulla pietra. Accettava il contatto soltanto la notte, quando si stendeva docile contro il corpo del compagno di viaggio e gli trasmetteva un ritrovato senso di complicità.
Eppure, in quelle interminabili ore di veglia, l’uomo sembrava assente;
lui sembrava sempre assente.

Tra gli alberi nudi e la neve riverberarono altri ululati, dapprima distanti, poi sempre più intensi. Erano una moltitudine inquieta, verso cui il lupo veniva inesorabilmente attratto. Quando raggiunse i suoi pari, la vivida luce rossa che ne accompagnava ogni gesto si spense. Il lupo era tornato a far parte di qualcosa che lo fece sentire un intruso. Lo invase un’emozione non definita, di cosa conclusa.
Il vuoto nel suo petto riecheggiava più che mai.

L’uomo sedette su una pietra, col cofanetto aperto sulle gambe, e sfiorò il proprio cuore pulsante. Lo sentì arido, secco, raggrinzito. Una secrezione densa fuoriusciva dall’aorta recisa, nera come inchiostro. Gli macchiò le dita, tatuaggio indelebile.
La neve scendeva spazzata dal vento e si posava sul suo viso, rigandogli le guance scavate. Decise che aveva indugiato abbastanza.

Marciò sino alle pendici di un’imponente catena montuosa, dove il terreno si faceva man mano più impervio. Senza quasi rendersene conto, l’uomo si ritrovò a scalare ripide pareti scoscese di roccia nuda, chiazzata di ghiaccio. Le sue membra intirizzite tremavano, stanche, scosse dal soffio furioso di una bufera. E lui, che vedeva nera anche la neve più candida, sapeva di essere ormai prossimo alla meta.

Splendette nel cielo una fulgida luce bianca. Era quanto di più intenso avesse mai illuminato il suo viaggio: si librava maestosa oltre le nubi, incurante della tempesta in arrivo. Un’aquila, regale e senza tempo; tutto ciò che non aveva pensato di voler cercare e che invece gli era comparso dinanzi.
Con sorpresa, capì che entrambi andavano nella stessa direzione.

Una violenta pioggia prese a flagellargli volto, schiena e petto. Picchiava con la forza di mille aghi sulla carne, incessante e furibonda. E mentre l’urlo del tuono scuoteva il mondo a intervalli irregolari, come una minaccia incombente, l’uomo arrancò. Ma si rialzò ancora e ancora, perché era certo che presto o tardi sarebbe tornato il sereno.
In lui viveva una strana aura di pace.

Sulla via per la vetta, il volo dell’aquila era una rassicurante compagnia. Ciondolava luminosa, a suo agio tra le correnti ascensionali, poi si librava così in alto da nascondersi nel sole. L’uomo fu invaso da un appagante senso di equilibrio; assaporava la totale comunione con l’ambiente circostante. Era un tutt’uno con il mondo, e il mondo era un tutt’uno con lui.
Chiuse l’occhio e si concesse un momento di serenità.

In cima alla montagna faceva freddo. L’aquila era scomparsa, svanita come per incanto oltre l’orizzonte. Sotto di lui si spalancava un oceano sconfinato, grigio e informe. Così sospeso sul vuoto, gli mancò il fiato e per la prima volta rimpianse la vista perduta. Dischiuse il feretro di legno con un gesto meccanico. Le grinze sul suo cuore erano un intreccio rinsecchito di venature sconnesse; fece scivolare le dita in una lenta carezza per accertarsi che vi pulsasse ancora la vita.
A stento, esso rispose con un sussulto stremato.

La libertà nasceva oltre quel precipizio. In luoghi remoti e solitari, o nel caldo abbraccio di un’anima affine. Il mare era un abisso di possibilità, incubi e sogni; il coraggio la sola bussola che credeva di avere perduto. Esitò, e trasse un respiro profondo insieme con la contezza di tutto ciò che gli era rimasto da fare:
un passo, un solo altro passo verso l’ignoto.