Jefe

Jefe era stato un pistolero, un tempo.
Aveva girovagato per le distese desertiche del K’laal e fumato la pipa con i saggi cacciatori delle montagne. Era conosciuto tra le tribù di Schiavi Rossi, tra i clan dei Calcedoni e fin nelle lontanissime locande di Poluvia.
L’ho scoperto parlando coi mercanti che vengono da queste parti in primavera. Sono perlopiù carovanieri diretti a est, che passano dalle nostre parti per avere un rifugio tranquillo durante la traversata delle praterie...questo nostro mondo sa essere crudele anche nella sua stagione più quieta, aye.
Insomma, quei viandanti spesso vedevano Jefe e si segnavano la fronte con due dita. Lui rispondeva con un cenno del capo, ma passava oltre senza dire una parola. All’inizio non capivamo, poi ci spiegarono che quello era l’antico saluto dedicato agli uomini di legge. C’era chi li chiamava pistoleri, sceriffi, giustizieri. Ma sono titoli che non appartengono a queste lande. Per noi la legge è sempre stata una questione pratica, senza bisogno di stelle sul petto o cose così.
Se però quelle leggende sono vere, allora il nome che abbiamo dato a Jefe è piuttosto adatto: “Capo” nell’antica lingua dei mandriani. Lui che capo non lo è mai voluto diventare, sin da quando è arrivato nel nostro insediamento. Glielo abbiamo proposto, oh sì. Più e più volte. Ma lui niente, ha borbottato al massimo quattro parole di circostanza e si è scusato. Sarebbe stato un buon capo, io credo. Lo si vede da come guarda le persone, da come cammina con la schiena ben dritta.
Hoanna dice di averlo capito dal giorno in cui lo ha visto per la prima volta. C’ero anch’io, me lo ricordo. Il capannone dei fratelli Larson aveva preso fuoco da solo, senza che nessuno ci buttasse dentro un fiammifero. Quello non era un incendio naturale, in città lo sappiamo tutti. Il grosso magazzino si era acceso tutto insieme all’improvviso, quasi stesse bruciando da ore. Le fiamme erano così alte e così calde che nessuno aveva osato avvicinarsi, anche perché il magazzino era isolato dal resto delle strutture e intorno aveva solo pietrisco e sabbia. Così siamo rimasti tutti a guardare il legno ardere, in attesa che finisse. I Larson bestemmiavano gli antichi dèi ogni tanto, ma gli altri erano solamente affascinati.
Poi dall’incendio è emerso lui, con lo stesso incedere deciso di un capo che viene fuori dal saloon dopo aver fatto cantare i soliti brutti ceffi ebbri di whiskey. Jefe è il nome che abbiamo pensato tutti, spontaneo come erbacce ai margini di un campo coltivato, quando Kyle Larson gli si è avvicinato per chiedere: “Que pasa, Jefe?” perché qui ancora si parlano dialetti lontani se si incontra uno straniero.
Me lo ricordo come se fosse ieri: Jefe aveva lunghi capelli neri e una barbetta ispida incolta, pantaloni da pascolatore ed una camicia di lino nero. Ma gli stivali, oh gli stivali! Erano di pelle d’asina trattata, una raffinatezza che solo i nobili ed i principi mercanti potevano permettersi per quel che ne sapevamo noi bifolchi. Allora sì, che aveva fatto bene Larson giovane a chiamarlo Jefe. Perché uno con degli stivali così non poteva che essere un capo. E poi aveva un cappello a tesa larga che imponeva rispetto nonostante fosse un uomo disarmato.
Guardandolo più da vicino con il passare dei giorni però io notai subito che aveva le mani di uno abituato a sparare. Le dita salde e sottili, rapide nei movimenti. Anche gli occhi neri dicevano qualcosa del suo passato, che lì per lì non son riuscito a indovinare.
A quei tempi Jefe aveva una chiazza nera sul collo, a sinistra, come un disegno a carbonella o un alone di caffè sul legno. Rotonda e al tempo stesso informe. Diversa da ogni altro neo, impossibile da definire. Non era un tatuaggio: a vederla si capiva subito che doveva essere qualcosa di più serio, inciso in profondità nella carne e forse persino nell’anima di quell’uomo taciturno.
Un giorno però quella chiazza non c’era più. È stato il giorno dopo la tempesta su a nord. Tuoni, fulmini e saette formavano un muro nero lungo tutto l’orizzonte. Gli uomini del villaggio avevano guardato alle finestre per settimane, la sera dopo il lavoro. Le donne avevano stretto al petto i figli per paura che il fronte del nubifragio si spostasse a sud, giù da noi. Qualche anziano si era anche messo a pregare, come non si vedeva fare da almeno due generazioni. Avevano riesumato antiche arti sciamaniche, secondo loro. La verità è che siamo stati fortunati, la tempesta ci ha lasciati in pace. E si è portata via la macchia di Jefe.
Ogni tanto sembra che Jefe svanisca. Succede quando si perde nei suoi pensieri e fuma il sigaro seduto su quella sua vecchia sedia a dondolo, sulla terrazza. Le assi del pavimento scricchiolano forte ad ogni avanti-e-indietro, ma lui è come se non fosse nemmeno più lì. Il tramonto gli passa attraverso, tagliandolo con raggi di sole rossi, arancio e gialli. Quelli che gli si sono avvicinati abbastanza da vederlo in quei momenti hanno detto che sembra un fantasma. Io credo che sia sospeso tra due mondi: il nostro, e un altro a cui in pochi possono andare. Non so se siano fortunati oppure no. A giudicare dall’aspetto stanco di Jefe però, direi proprio che la fortuna con quel mondo ci ha poco a che fare.


Una volta stavamo giù al saloon, io, Jefe e Dinky il matto. Non è che sia abitudine di Jefe scendere in paesello a bere con noialtri, oh no. È uno che bada agli affari suoi, ma la solitudine alla lunga è una rogna brutta per tutti. Tracanna che ti tracanna, in fondo al settimo bicchiere ho trovato il coraggio. Gli ho fatto: “Jefe, dimmi una cosa: donde vas cuando estas nel portico a fumare?” Ero ancora abbastanza in me da ricordare che Dinky ha messo su una faccia spaventata come a dire che il matto laggiù non era più lui. Nossignore. Forse ha scosso pure la testa, quel figlio di brava donna. Vattelapesca, quel che so è che Jefe mi ha guardato tutto serio e poi ha fatto l’ultima cosa che mi aspettavo di vedergli fare. S’è messo a ridere. Di gusto, quasi a crepapelle. E aveva questa risata forte, contagiosa, che alla fine ci siamo ritrovati tutt’e tre a tenerci la pancia. Me lo ricordo come fosse ieri.
“Vado oltre i fuochi di Calavera” ha detto quando ci siamo asciugati le lacrime. Il suo tono era piatto, sulle labbra aveva ancora l’ombra di un sorriso. Come quello del mio pa’ quando mi spiegava come si prende su un aratro. E allora ho capito che noi, per quelli come Jefe, siamo come bambini mai scappati oltre il recinto di casa. Siamo scoregge di vacca nel vento. Sassi incagliati nel fondo di un lago sempre immobile. A Jefe però non importa, lui ci tratta da pari. Con rispetto. E noi siamo sì gente semplice, ma il rispetto sappiamo com’è che si ricambia.