Quarto e tre

Le luci dei riflettori disegnavano lunghe ombre sull’erba umida.
Oltre la visiera rigata dalla pioggia c’erano undici sagome in divisa scura. Tutt’intorno a lui lo stadio urlava, vibrava, si agitava come una creatura viva e affamata. Era il ventre della bestia, pronto a trasformarli in polvere.
Ma per lui era come se non fossero lì, invasori in terra straniera.
Jamal lasciò andare un respiro, un alito caldo nella notte. Prese in cambio altra aria ghiacciata con cui riempirsi i polmoni. Ogni muscolo del petto era teso, contratto e pronto a scattare. Le gambe fremevano per la voglia di sprigionare tutta la potenza di cui era capace.
Fissò il cronometro, minaccioso presagio in rosso su sfondo completamente nero.
Un minuto e trenta secondi.
Avevano solo quella possibilità per tenere il possesso della palla, per sferrare un ultimo disperato attacco alla redzone avversaria e vincere quella maledetta partita.
Il coach lo aveva detto: ai playoff saremo aggressivi. Lotteremo su ogni yarda, ogni tentativo sarà quello decisivo.
Quando il quarterback aveva chiamato lo snap sul terzo e tre, Jamal aveva percepito qualcosa. L’istinto, forse, gli aveva fatto intravedere una finestra sul futuro.
Lui aveva fatto blocco contro il tentativo di blitz, ma nel frattempo il lancio alle sue spalle era partito in ritardo. Troppa pressione. Gli avversari erano forti in pressione, sciacalli assetati di sangue.
Jamal aveva osservato la parabola lenta e goffa del pallone con la coda dell’occhio. Il ricevitore suo compagno di squadra aveva tentato un tuffo disperato per evitare un incompleto.
Tutto inutile: era finito a terra tra mille schizzi e bestemmie.
La palla aveva rimbalzato oltre le sue mani.
Ovazione della folla, in delirio per l’azione difensiva dei padroni di casa.
E tra i compagni di Jamal era calato un silenzio doloroso. Non potevano permettersi di far entrare in campo lo special team. Un punt li avrebbe condannati.
Restava solo un’opzione, scandita a chiare lettere sugli schermi di tutto lo stadio.
4th & 3.
Gli uomini di linea avevano battuto le mani subito, per incoraggiare gli altri - e soprattutto se stessi.
Il quarterback era rimasto zitto, ma aveva guardato nella sua direzione. Jamal non lo aveva mai visto così nervoso. Gli si leggeva l’ansia negli occhi. Per la prima volta sembrò un ragazzino spaesato, come se il peso del suo primo anno di football tra i professionisti gli fosse crollato improvvisamente addosso.
Jamal avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma le parole gli morirono in gola, e tutto ciò che seppe fare fu annuire.
Un piccolo gesto con la testa, come a dire: ce la facciamo.
Poi si era girato a guardare gli avversari. Aveva chiuso fuori tutto il resto: i cori dei tifosi, l’odore del prato sintetico bagnato, il sudore. Le voci dei compagni e del coach.
Per lui c’erano solo undici sagome scure da superare.
E pochi istanti per scrivere la storia.
Si chiese se anche i grandi conquistatori del passato si fossero sentiti così. Osannati, superiori, onnipotenti. Come dèi tra gli uomini.
Guardò alla sua destra e poi alla sua sinistra. Sugli spalti gremiti vide la paura, ne sentì il fetore acre. Ma vide anche la speranza, tra coloro che portavano i suoi stessi colori.
Alzò la mano destra. Indice, medio e anulare protesi verso il cielo.
Tre.
Una promessa e una minaccia.
Tre yarde.
Tre fottute yarde.