Taxidermy

Nelle fredde paludi del Caucaso vagano cose che l’uomo ha preferito dimenticare.
I pastori azeri ci girano al largo, anche se questo significa condurre le greggi attraverso lunghi e pericolosi sentieri. Tra i georgiani c’è persino chi si segna e prega Iddio al solo sentir nominare gli acquitrini. Le anziane donne dei villaggi rurali affermano che il bagliore di lontani fuochi azzurri sia ben visibile nelle notti di luna nuova, quando il cielo si fa scuro e le porte restano sbarrate fino alla mattina. Talvolta un vento che spira da oriente mormora parole senza padrone alle orecchie dei popolani, assieme al bieco raspare sotterraneo di esseri disperati.
Nessuno osa avventurarsi oltre il limitare del bosco, ai piedi delle montagne, e così la conoscenza di ciò che vi si nasconde è andata perduta. Ma il timore, radicato da generazioni nelle genti di quella contrada, ha ancora la stessa intensità di duecento anni or sono.
A quei tempi, attratto dalla storia di leggendarie prede e creature mai viste altrove, era giunto nei pressi di un villaggio armeno un famoso cacciatore di origini britanniche. Armato di fucile si era fatto indicare una via attraverso il pantano da una guida, rifiutatasi di accompagnarlo laddove egli voleva recarsi. Nei quattro giorni e nelle quattro notti che l’uomo aveva trascorso all’interno della palude i fuochi blu avevano danzato all’orizzonte salutando il calar del sole come un infame presagio.
All’alba del quinto giorno una lavandaia aveva trovato lo straniero riverso in una pozza di fango poco oltre il limitare della vegetazione. Era nudo, tremante e disarmato. Negli occhi aveva uno sguardo vitreo, immobile, e le palpebre sembravano aver smesso di battere per lui. Ardeva di una febbre intensa, che nemmeno il cerusico accorso dalla grande città era riuscito a strappargli di dosso.
Durante i suoi interminabili deliri l’uomo farfugliava di orrori oltre il reale: con voce tremante aveva descritto azzurri vapori sulfurei provenienti dall’antico sottosuolo, tra le rovine metalliche di un luogo estraneo. Riferì di luci vermiglie che baluginavano come piccole stelle in ordine statico, comunicando tra loro attraverso fili di fiamma, e di fronde scosse dall’agitazione di ombre colossali. Soprattutto tornava spesso con la memoria a un cimitero di animali pietrificati a guardia d’un recinto invisibile; ricordava con fervore i loro occhi vivi, ancora guizzanti dentro corpi come imbalsamati e tuttavia ancora caldi.
Ora dopo ora il suo stato di salute peggiorava sempre più, aggravato dai racconti febbrili in cui si prodigava senza posa. I dottori decretarono che sarebbe campato suppergiù per un’altra settimana, ma si sbagliavano: entro poche ore il corpo dello straniero era scomparso e non fu più trovato. I medici, sbalorditi, tacquero, e la faccenda venne liquidata con gesti di stizza. C’è chi ancora oggi sussurra di una morte tanto improvvisa quanto misteriosa e chi, invece, si limita a invocare la protezione della Santa Vergine Maria.
Alcuni boscaioli riferirono in seguito di aver visto sagome di bestie e di uomini stagliarsi controluce nel profondo della palude. Se ne stavano in piedi, come paralizzati, a fissare il vuoto con sguardi imploranti.
Da allora nelle notti di luna nuova si è aggiunto un nuovo rumore, una nuova voce al groviglio di ringhi che riempiono l’oscurità. Mormora parole in una lingua lontana, insieme terrificate e terrificanti, rivolte alle stelle oltre la luna. E di quando in quando a quei sussurri seguono tonfi liquidi, di passi pesanti.
Come qualcosa di titanico e irrequieto, ramingo tra i pantani senza padrone.